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Antonio
Ragone
Canti dall'esilio
Sono esiliato lontano da me stesso
in una confusa terra super flumina Babylonis
La Poesia è ricerca, è scardinare le certezze, è
intromettersi nei meandri più nascosti dell’essenza, è
partecipazione all’uni
versalità delle cose, la Poesia è soprattutto un segreto
carpito e svelato al mondo con l’inquietudine di non
sentirsi in grado di spiegarlo fino in fondo. Resta sempre
quella sensazione, che Ungaretti chiama “inesprimibile
nulla” che spinge ancora l’animo del poeta a non smettere
mai di cercare, perché sa, e perché riesce a vedere oltre
per risolvere il “quid” che altri, abbagliati dal nulla, non
riescono nemmeno a percepire. È un continuo rincorrersi,
come solo si può rincorrere senza stancarsi mai, l’amante.
Perché la Poesia è la più appagante delle amanti.
La nostra vita è Ombra, abbiamo bisogno di Luce che ci
indichi il percorso sempre imprevedibile e doloroso. C’è
bisogno del senso del vento che ci passa tra i capelli e ci
sconvolge senza farci male. Sì, può essere la nostra bussola
naturale che ci guidi verso nuovi lidi più puliti che ancora
non siamo riusciti a sporcare. La nostra bussola è solo
“impazzita”, come quella di Montale che non sa più indicarci
quale sia la via da seguire, e seppur ci affidiamo al
calcolo dei dadi, questo “più non torna”. E mi sento perduto
quando guardo il mare e ad esso accosto questa inconsistenza
dell’uomo, incapace di regolare almeno un poco i ritmi
sociali del tempo. L’umanità si sta imprigionando in un
mondo ambiguo, insolvente in ogni contesto, con l’evidente
segno d’un atroce fallimento, lasciando solo aleatorie
opzioni di sopravvivenza. Sì, ascolto questo canto simile a
lamento del mare quando s’infrange onda dopo onda in un
alternarsi di emozioni. Le emozioni, quelle vere, non è
semplice trasmetterle se non con la poesia, la cui voce è
l’anima intricata e misteriosa, il suo luogo d’ascolto è il
silenzio dove, profondo, s’avverte la presenza di elementi
spirituali e culturali lasciati sospesi in un percorso umano
che si chiama tempo.
Qualche tempo fa, di sera, mentre in auto percorrevo la
discesa della larga via che da Cava de’Tirreni porta a
Vietri sul mare, vidi la croce illuminata in cima al Monte
San Liberatore, come orgogliosa costellazione già pronta a
regalare la fragran
za del vicino sale costiero.
Così l’io-fanciullo e l’io-adolescente per la prima volta
videro me-adulto uomo, levigato da faticose salite, per poco
rinvigorito dagli esclusivi sapori di quegli anni. Quante
passeggiate per quelle vie illuminate a sera, con gli amici,
noi giovani impazienti, a discorrere di un futuro che era,
allora, solo speranza, e oggi conquistato pagandolo con i
soldi della nostalgia. Sono i momenti che la vita costruisce
a nostra insaputa, quasi di nascosto, per timore che ne
venissimo a conoscenza prima dell’avvento.
Scendendo giù per quella via, alla sua fine, la vista
s’allarga all’ampio e maestoso golfo di Salerno. Alle
pendici della costa vietrese c’è La Crestarella, imponente
torre cinquecentesca che si affaccia sul mare, parte
integrante del secolare sistema difensivo della città. Sì,
lo so, l’ho sempre saputo, la vita è come il mare, e noi
spesso siamo in burrasca, raramente conosciamo la bonaccia.
E se vogliamo, per estensione, l’uomo stesso provoca
burrasche, e soffoca la voce silenziosa o rumorosa del mare,
che spesso si sente infastidito e disturbato e ci vomita
addosso la sua rabbia. Questa torre da secoli guarda il mare
per avvisare delle insidie che possono venire dal
l’orizzonte, ma è anche il simbolo del rispetto verso questo
mare, la torre sembra a lui ossequiarsi. È bello vederlo
così calmo, placato, soprattutto dopo una burrasca. La vita
spesso è dura, e bisogna difendersi anche contro queste
frequenti burrasche marine. Si placa il mare e anche in me
si placa la guerra dei sentimenti.
Lì vicino alla torre, imponenti, s’elevano i Due Fratelli.
Una leggenda racconta che due fratelli pastori pascolavano e
custodivano il loro gregge. Sulle onde del mare apparve la
sublime bellezza d’una fanciulla marina, che io chiamerei
Poesia: ella si lasciava dolcemente cullare suggestivamente
e quietamente dalle onde del mare della vita.
Improvvisamente il mare mutò d’umore e divenne insofferente
ed agitato, le sue onde si sollevarono minacciose
travolgendo l’incantevole fanciulla. I due fratelli, con
istintuale passione, si gettarono tra i marosi per salvarla,
le loro pecore li seguirono premuro
samente. Il mare, come spesso accade, non ebbe pietà, tutti
finirono travolti dalla furia dei cavalloni e annegarono nel
vano tentativo di salvare la bellezza. Poseidone, il
mitologico dio del mare, non riuscì a placare la bufera
marina. S’addolorò per il loro coraggio e la loro passione
trasfigurandoli in due superbi scogli, da allora sempre
chiamati “I Due Fratelli”. Le piccole rocce d’intorno sono
le “pecorelle”.
E come non ricordare un Poeta, con il quale abbiamo
condiviso la stessa terra e lo stesso mare, lo stesso umore
della nostra gente. Con Alfonso Gatto voglio ricordare la
Poesia, oggi forse troppo lontana dalle esigenze di questa
società inquinata senza punti di riferimento, i valori
buttati alle ortiche. Le sue liriche si distinguono per la
musicalità dei suoi versi che narrano d’amore e di sofferta
quotidianità, dove all’impegno civile si unisce il ricordo
nostalgico dell’infanzia e della sua terra d’origine. Il suo
linguaggio è spesso limpido, musicale, si sviluppa passando
attraverso un appassionato lirismo umani
tario, fino al raggelarsi della parola nella riflessione
della morte e del mutamento misterioso della vita e della
sofferenza del
l’umanità. Alfonso nacque nello stesso rione dove nacque mio
padre, forse chissà quante volte si saranno sfiorati
guardandosi negli occhi, quelli d’un azzurro mare del poeta
e quelli color di rame di mio padre, magari scambiandosi
qualche parola.
È raro quando la vita ancora mi meraviglia.
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Antonio
Ragone
Riverberi vietresi
pp. 110 – edizione 2012 – € 12,00
ISBN 978-88-6328-146-0
Ebook € 3,49
ISBN 978-88-6328-2085
Quando si nasce poeta, molti sono i sentimenti, che, poi,
inevitabilmente crescono con lui, diventano visibili e
percettibili, trasformandosi in un grappolo di sensazioni
che gli terranno sempre compagnia, come l’amore, la vita, la
morte.
Questi non sono luoghi di effimere visitazioni, bensì una
pura e concreta sintesi che consente di osservare,
meditandoli, i pur piccoli avvenimenti, le minime tracce del
vivere, da essi traendo un naturale stimolo a trasmettere
questi apprendimenti (o apprensioni?) ai suoi compagni di
viaggio.
Quando, dopo aver sperimentato e quindi assimilato, si
scrive, su di un pezzo di carta, una poesia, si prova il
complice sospetto che, a causa di un’intima, incontenibile
esigenza, si stia scrivendo solo per se stesso, quasi per un
sogno.
Ma il poeta potrebbe forse essere un bambino invecchiato, ma
non è un sognatore né un solitario scribacchino, è un
artigiano della realtà che vive, non con, ma il Mistero, e
quindi con le inquietudini delle contraddizioni che abitano
nei meandri dell’umanità.
Io sono nato poeta, inconsapevole marinaio, in uno spazio di
tempo perplesso, dove i valori sono tutti da ridefinire,
anche il valore stesso della poesia, simile ad aquila
ferita, che in questi anni si mostra sempre sul punto di
morire, eppure sempre rinasce, vola orgogliosa sui monti e
sui mari, a dispetto di un mondo distratto, consumistico e
frettoloso.
Ho cercato di far emergere un forte desiderio di
ri-conquista, fino in fondo, della vita, quasi mi fosse
stata sottratta; e lo faccio chiedendo alla vita stessa, in
un medesimo momento, ossimoricamente, verità e bugie,
distruzioni e difese, eliminazioni e salvataggi, accettando
da essa solo l’unica vera offerta che è l’amore, ricercando,
come in un vicolo stretto, quei sentimenti smarriti nel
sottosuolo di una società che incoscientemente pretende di
poterne fare a meno.
Da anni ormai ho capito che il silenzio fa rumore e ogni
giorno si vuole imparare a cadere per rialzarsi senza troppe
ferite, rimettendosi continuamente in gioco, in un circuito
vitale dove il mare è immenso come una suggestiva voglia di
libertà.
È come quando s’avverte l’interiore necessità di scrivere ad
un vero amico giovanile, cercando l’occasione, dopo tanti
anni, di rivedersi.
Allora non si spenderanno mai troppe parole per
ringraziarlo, assicurandogli con sincerità che in tutti
quegli anni, scorsi via come acqua di fiume, il mio pensiero
è sempre ritornato ai ricordi della giovinezza, ai quali mi
sono nutrito e tuttora mi nutro con immutata nostalgia.
Quanti ricordi! Le nostre passeggiate per il corso di Vietri
sul mare, i bagni marini sotto il sole costiero dell’estate,
le partite a carte nel retrobottega del ciabattino, quando
la pioggia bagnava le vie del paese, le ore passate dai
Salesiani, le partite di calcio, le passeggiate a piedi fino
a Salerno passando vicino Palazzo Olivieri.
E quanta speranza nei nostri discorsi rivolti al domani,
quel domani che è già passato, e siamo ritornati all’oggi.
Strana è la vita, che ci illude spesso, ci prende per la
giacca e ci porta dove vuole, in quel momento, nemmeno ce ne
accorgiamo.
Poi… poi, d’un tratto mi sovvengono i volti dei tanti amici
che hanno attraversato la mia vita, in particolare di quelli
giovanili, e ne definisco il valore che tuttora appare
autentico ed essenziale, avendo condiviso insieme tante
piccole gioie e, perché no, le illusioni e le delusioni del
nostro tempo, che custodisco gelosamente nelle fotografie in
bianco e nero che spesso vado a visitare.
Ebbene, i ricordi di quella nostra giovinezza mi hanno
aiutato a portare avanti la vita, in special modo nei
momenti difficili che spesso ho incontrato lungo il mio
percorso.
Questa mia raccolta di poesie scelte, assimilata da lontani
anni e quindi maturata in me per privilegio di origini
marine, vuole raffigurare il mare, come la grande misteriosa
metafora della vita, una mistura d’inquietudine e fascino,
mare alfine placato, mare sofferente e disturbato, mare che
infonde pace e turbamento, mare di vita e morte.
La vita è un passaggio costiero che s’apre, forse,
all’elemento arcano e si amplia nell’azzurro golfo, sino
all’estremo irraggiungibile orizzonte.
Antonio Ragone
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Antonio Ragone
La passione degli apostoli
pp. 104 - Edizione 2014
Questo mio lavoro è nato ed è morto mille volte, un progetto
che ha vissuto alternanze di riprese ed abbandoni della
durata di mesi e forse anni.
Mi sono molto dedicato alla lettura e allo studio della
Bibbia – che io considero il capolavoro letterario di tutti
i tempi, e per tale motivo, meritevole d’esser letta da
tutti – alla ricerca del supremo senso della sofferenza
umana così presente nelle sue pagine.
Ma il limite d’una spiegazione resta invalicabile a causa di
una ragione impossibilitata a comprendere, giacché la Bibbia
insegna che la sofferenza dell’uomo è un mistero che fa
parte di un piano che trascende dalle normali conoscenze.
Cristo, Dio fatto uomo, sperimenta allora anche in se stesso
la forza tenebrosa del dolore: egli piange davanti alla
tomba dell’amico Lazzaro, si commuove, avendone compassione,
della folla che da lui attende parole di conforto, e
soprattutto intraprende l’itinerario doloroso della
passione, la Via Crucis per eccellenza, consegnandoci così
la soluzione inspiegabile della sofferenza.
La Passione di Cristo, dunque, non è avulsa dagli uomini,
anch’essi ne sono coinvolti.
Per questo tutte le liriche sono composte da dodici versi
endecasillabi e, in particolare, nella XVI lirica, che
tratta l’evento della Resurrezione, ho voluto immergervi
simbioticamente i dodici Apostoli, principiando ciascun
verso con la lettera iniziale dei loro nomi secondo l’ordine
del Vangelo di Luca.
Ma quanti timori di natura concettuale sopravvengono quando
ci si avvicina alla ricerca del fascino grande e miste
rioso
della sofferenza!
Nessun proposito da parte mia di sostituirmi a filosofi,
teologi, esegeti e biblisti, non è stato questo il mio
intento, né avrei voluto, né avrei potuto farlo.
Come un tarlo, il forte proposito di rinunciare al progetto
mi ha accompagnato per anni, pur proseguendo un indefinito
cammino, spargendo su fogli disseminati qua e là un decennio
di appunti, ora finalmente raccolti in questo libro per me
così faticoso e sofferto, giacché il poeta non è che un
acuto e inflessibile osservatore delle realtà infinite il
cui compito è quello di porsi pur tormentate domande, senza
avere alcun dovere di consegnare definitive risposte.
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Antonio Ragone
L'isola nascosta
Enea o Ulisse? Chi siamo? A chi dei due assomiglia la nostra
vita?
Crollate tutte le ideologie, sparite le utopie, ammainate o
strappate tutte le bandiere, sembra che la scelta decisiva
per l’umanità sia quella di fronte a questa alternativa: o
il viaggio di Ulisse, l’uomo greco, l’eroe vittorioso, che
vince con il braccio e la testa e viaggia attraverso il mare
per riprendersi Itaca, la sua isola, e ridiventare re, sposo
e padre; o il viaggio di Enea, l’uomo romano, l’eroe che ha
perso, che non ha più patria, che rinuncia alla sua comoda,
ma piccola, angusta “Itaca”, la Cartagine di Didone che gli
offriva se stessa e un trono, e, guidato dallo spirito del
padre, va per obbedire agli dei verso qualcosa che non sa
nemmeno lui bene cosa sia, perché si sente “chiamato”,
avverte cioè tutta la vita letteralmente come “vocazione”.
È un fatto che l’uomo greco ha poi fondato tante piccole
“Itaca”, tante pòleis, mentre l’uomo romano ha fondato un
impero che non è stato tranquillo finché non ha coinciso
quasi con i confini del mondo.
La poesia di Antonio Ragone ci aiuta a scegliere il
“viaggio”, cioè il destino di Enea.
Per Ragone (Ouverture) siamo tutti “inconsapevoli marinai”,
ma la nostra “antica meta”, “l’isola nascosta”, non è Itaca,
non è l’orizzonte ristretto della terrestrità, non è una
dimensione umana chiusa in sé, conclusa in se stessa: la
“strada stretta” porta al mare, all’infinito, “all’elemento
arcano”, si slarga
“nell’azzurro golfo,
sino all’estremo
irraggiungibile orizzonte”
(Passaggio Costiero)
L’“ampia distesa di mare” è “fatica e riposo, affascinante
paura”, ma soprattutto per noi “esuli, nel misterioso spazio
d’un istante”, è
“speranza di porti più lontani dell’orizzonte”
(La Donna con le Vesti Nere)
Come Enea, anche Ragone non ha sempre un rapporto idilliaco
con il mare, con il viaggio per mare, cioè con l’esperienza
della vita. Nel rapporto col reale egli non si nasconde
difficoltà e problemi. A cominciare dal dato di fatto
iniziale nell’esperienza umana: esistiamo e non sappiamo
perché.
Come l’“agave nata sulla roccia / che costeggia l’asfalto
cocente / dell’estate” (Terra e Mari Lontani) ci sentiamo
fuori posto, fatti per un luogo “altro”, per qualcosa di più
grande di noi stessi e quindi incommensurabile.
E infatti il “mare invernale, l’ultima frontiera della
terra” ci rammenta
… i sensi racchiusi nell’antica corteccia della storia,
giacché quel vento che ci chiama oltre l’orizzonte,
vola più lontano di noi”
(Esodo verso il Mare)
L’“inconsapevole / marinaio” si sente “esiliato e solo”
e a volte “s’agita la barca per pietrosi scogli; non c’è
la luna che sia da lume, né luci seppur distanti
d’una proda di sale”
(Sul Mare di Cartone)
Ma non siamo soli: siamo circondati dai segni della Presenza
che salva, segni che ci accompagnano verso l’”antica meta” e
ce ne indicano la strada. Un cuore di poeta non può non
coglierli:
“tu, nei miei viaggi irrequieti e senza fine,
con me, su questo mare, come chiaro faro, sempre mi sei
accanto”
(Dedica Marina alla Moglie)
“Ma, da lontano, un faro si culla sui flutti,
luce certa d’un porto che protegge
dalle insidie delle urla marine;
verso quel faro, dentro quel porto
mai abbandonato, sulla barca che ondeggia
sull’onde amabili d’un mare che vive,
dorme azzurro il marinaio”
(Sul Mare di Cartone)
E a “pro-vocare”, a chiamare letteralmente “in avanti” il
pascaliano “cuore” dell’uomo, è ancora una volta il
mare-realtà, il dantesco “gran mar dell’essere”
“della vita trepidante fascino”
(Mìmesi)
Anche se “i remi abbandonati nei flutti tremano”, il viaggio
dell’ungarettiano “superstite / lupo di mare” riprende:
“avanti, forti,
col sole e la tempesta
verso un mare
spalancato al mistero”
(Luca Cupiello)
La “torre misteriosa / baluardo antico contro i saraceni”,
altra potente metafora di Ragone, “incorporata alla
scogliera d’inerpicanti / agavi e carrubi e fichidindia”
(Notte d’Ottobre ’54), ha resistito ai “marosi”, che l’hanno
flagellata, ai “venti contrari, alle illusioni delle
sirene”.
E il viaggio riprende, “sempre il viaggio riprese, / lo
stanco marinaio, e ancora oggi!” (La Sera Inquieta), un
viaggio che passa attraverso l’oceano, il deserto, la
fatica, per approdare alla terra promessa, alla pienezza,
per scoprire un luogo in cui si stia bene, una dimora, un
éthos, come dicevano i greci.
A questo éthos Ragone dà il nome di “isola nascosta”, quella
che Gozzano definisce “La più bella” perché è l’“Isola
non-Trovata”: “la segnano le carte antiche dei corsari”,
“s’annuncia col profumo”,
“… Ma, se il piloto avanza,
rapida si dilegua come parvenza vana,
si tinge dell’azzurro color di lontananza…”
“L’isola si nasconde”, ma “esiste”. Non è l’Isola-che-non-c’è.
È nascosta, deve essere cercata, ma c’è.
Lo ha capito alla fine anche Ulisse, a cui Dante (che non a
caso comincia la Divina Commedia con la parola “cammino”
perché anche per lui la vita è viaggio) rivolge nel Canto
XXVI dell’Inferno una domanda interessantissima. Dante
accetta tutta la storia dell’Ulisse omerico, non inventa un
altro Ulisse, perché l’uomo cristiano non deve negar nulla,
non deve dire che era uno sciocco l’Ulisse di Omero, no, lo
accetta tutto, ma gli fa la domanda che l’uomo cristiano fa
all’uomo greco: “Ulisse, dove sei andato a morire?”. Questa
è la domanda con cui inizia il dialogo perché Dante sa che
Ulisse, cioè l’uomo, non può fermarsi, accontentarsi di
Itaca. Dante conosce la misura del cuore di Ulisse meglio di
Omero e perciò l’Ulisse di Dante non è il contrario di
quello di Omero, ma il suo compi
mento: inizia dove quello
di Omero era finito. Infatti Ulisse risponde a Dante: “È
vero, non mi sono fermato a Itaca, ho ripreso il mare”.
Anche Ulisse, sembra commentare Ragone, mentre “il giorno
già declina nella sera” “celeste” e “silenziosa”, con
L’Ultima Vela torna ad immergersi “in mare, senza posa”,
s’allontana dagli “azzurri massi” di Itaca e si affida “al
vento” “fuori dai (suoi) rumori”.
È quello che cantava lo “sconosciuto / che vendeva more di
gelso su foglie di fico” e che la “Madre” nel suo
tenerissimo “Colloquio” con il figlio “ri-corda”, riporta
cioè letteralmente al suo “cuore”:
“La barca solitaria
in mezzo la mare,
cerca riparo in darsena
il fanciullo;
poi, pur nella tempesta
il suo viaggio riprende,
ché il mare il suo colore
ha messo negli occhi suoi”
(Colloquio con la perduta Madre)
Ed è quest’ultima la grande verità, l’eredità della “madre”
che Ragone accetta di condividere con noi, suoi lettori: il
viaggio riprende perché “il mare il suo colore / ha messo
negli occhi” di ogni uomo, che si ritrova per questo pieno
di desiderio (“dalle stelle!”), di una strana nostalgia non
lenita mai da niente, da nessuna piccola “Itaca” e che è
quindi nostalgia di un Infinito.
Il viaggio riprende perché, rivela la madre, “noi siamo il
mare”: perché quell’Infinito è la profondità del finito, è
l’origi
ne e il sostegno di tutto quello che esiste. Non
riconoscerlo porta al “dis-astro”, al fallimento di Ulisse,
il cui errore non fu di voler oltrepassare le Colonne
d’Ercole, ma di voler misurare l’Oceano come aveva misurato
il Mediterraneo, di voler cioè ridurre prometeicamente
l’Infinito al finito, di conquistare la falsa felicità di un
paradiso “terrestre”, invece di colmare L’Assenza e compiere
L’Attesa, varcando
“… la soglia dei silenzi, ove
non si smarrisce la ragione e non si tirano
per ogni dubbio i dadi”,
là dove L’Ultima Vela conduce a trovare “la pace / nella sua
bianca veste”.
“Noi siamo il mare, questo spazio
immenso, eppure troppo breve
per la nostra eternità,
questo scrigno aperto pieno di mistero”,
questa incessante “pro
vocazione” a intraprendere e
ripren
dere il viaggio verso L’Isola Nascosta.
Antonio Fiorito,
critico letterario, Docente di Lettere e Filosofia Presso il
Liceo-Ginnasio statale
“Claudio Eliano” di Palestrina (Roma)
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